Alberto Timossi al mio studio

ntervengono nella conversazione Lucilla Catania, Daniela Perego, Pasquale Piroso, Silvia Scaringella, Davide Silvioli

Anna Maria Panzera: Alberto Timossi, entriamo subito nel vivo della nostra conversazione. Parlaci del lavoro che presenti oggi: come l’hai realizzato, a partire da quale idea?

Alberto Timossi: Questa scultura s’intitola Peso leggero. Fa parte di una famiglia di opere realizzate nell’ultimo anno, cui ho dato il nome di Pagine. Per me si tratta di una novità piuttosto importante, avendo finora frequentato prevalentemente la scultura ambientale e lavorando insistentemente la forma del tubo. L’opera è sempre in materiale plastico, in Pvc, ma si discosta dai lavori di qualche anno fa.

Allora gli elementi erano sfacciatamente minimali, in dialogo con l’architettura. Semplici, puliti, netti, lineari, monocromi, dove l’importante era il rapporto che s’instaurava con l’ambiente, i suoi innesti (entrare e uscire dagli edifici, creare dei cortocircuiti con gli spazi attraversati dai visitatori, i quali s’interrogavano se si trattasse di un’opera d’arte o se il lavoro avesse una funzione).

Il mio obiettivo, infatti, era quello di realizzare una scultura per la città ed io diventarne l’interprete, il “lettore” di una città (per la quale l’opera era pensata) che vuole esprimere se stessa attraverso i propri materiali e vuole per sé una scultura che racconti di lei. Per cui, i miei tubi uscivano dal sottosuolo, dai muri degli edifici, come fossero delle membra, delle parti anatomiche, delle vene. Una grande anatomia della città.

Successivamente, mi sono riappropriato (tornando alla memoria della mia formazione fra Genova e Carrara) del piacere della scultura, della sua superficie. Ho riacquistato il piacere del modellare la materia attraverso un elemento nuovo, ovvero l’acqua. Questo elemento ammorbidisce il tubo, lo rende fluido, per cui nascono i primi interventi che avranno il massimo della loro espressione con Fata Morgana, con Spilli, con Segnacoli soprattutto. In questi lavori, la sezione del tubo a contatto con l’acqua viene modificata, deformata, fluidificata. È addolcita. La lotta fra l’elemento naturale e l’elemento industriale si concretizza nel fatto che a contatto con l’acqua l’elemento industriale trova la sua narrazione modificata.

Arrivando alle ultime sculture, oltre a cercare questo dialogo con l’elemento naturale, che mi ha consentito di scoprire quindi il dialogo con la natura e col cambiamento in natura soprattutto, ho ritrovato il piacere di prendere in considerazione la pietra, la terracotta, la ceramica, l’acciaio.

Il senso di questa ricerca, quindi, risiede nel dialogo fra materia naturale e materia industriale, con ciò che è apparentemente considerato negativo, inquinante, come ad esempio la plastica, simbolo della crisi dell’ecosostenibilità (anche se sappiamo che la plastica in realtà è un materiale fantastico, dotato di una straordinaria duttilità). Qual è quindi il modo di conciliare un materiale nuovo, frutto dell’ingegno umano dell’industria che si presta a tantissimi utilizzi, a tantissime possibilità d’espressione, anche a risolvere i problemi quotidiani (dal bicchiere, alla bottiglia, alla siringa…) e la materia naturale che, nel caso di questo mio lavoro, è la pietra? Come conciliare natura tradizione e industria? Ecco, attraverso l’osservazione simbolica di questi due materiali: nel loro accostamento, essi diventano inseparabili, imprescindibili; la pietra ha bisogno della plastica e la plastica della pietra altrimenti l’opera non starebbe in piedi… Sottolineo che la pietra è assolutamente naturale, reperita da me ma sulla quale io non metto mano.

Daniela Perego: Ho l’impressione che in quest’opera la pietra apparentemente vinca la plastica, ma nel contempo la plastica contiene la pietra, l’accoglie, come un fiore. E’ curiosa quindi questa doppia dimensione, che sembrerebbe agli antipodi. Ce ne vuoi parlare?

Alberto Timossi: la lettura è corretta, e l’intenzione è voluta: quella di cercare un linguaggio per sollecitare più possibilità di interpretazione. Questo è un tema infinito. Tra l’altro l’opera potrebbe alludere alla mossa della morra cinese, della carta che avvolge la pietra. Mentre se collocata su un prato (com’è successo recentemente, in una Villa romana a Tor de’ Cenci) prende le vesti di un fiore, appunto.

Lucilla Catania: Questa tua attenzione ad altri materiali, pensi che in qualche modo sia legata al fatto che la plastica ti è sembrata un argomento chiuso? Hai avvertito di aver sfruttato al massimo questo materiale che è di fatto il tuo , quello che ti rende riconoscibile da sempre? Una sorta di esaurimento di possibilità?

Alberto Timossi: Non solo. Per anni, come sapete, ho lavorato con il tubo inteso come forma pulita, per poi avvertire un limite non solo del materiale ma del minimale: bellissimo, insuperabile per certi aspetti, però non mi rappresenta completamente. Mi rappresentano sì la pulizia, l’equilibrio, come in Illusione, il lavoro che ho realizzato a Carrara. Ecco lì mi ci trovo, anzi alle volte ne sento anche un po’ la nostalgia…

Tornando alla forma del tubo, a un certo punto ho avvertito il limite: che il tubo potesse diventare non più rispondente al mio modo di vedere la scultura ma a un modo generico di pensarla. A quel punto ho detto no: quel tubo deve sempre e comunque rappresentarmi. Mi sono fermato a pensare quale fosse la mia strada, quella di un lavoro autenticamente personale. E quindi ho cercato di capire come potevo modellare il tubo, cercando degli alleati che mi consentissero di intraprendere questo percorso, di sentirmi di nuovo a mio agio nella trasformazione della materia.

Prima l’acqua e poi tutto il resto. Come ad esempio Segnacoli o Fata Morgana, realizzato presso un laghetto delle Alpi, alimentato in parte da un ghiacciaio coperto e nascosto dalle rocce (rock glacier), per il quale ho lavorato insieme all’Università di Torino. Se lo osserviamo da vicino, esso rappresenta il miraggio della Fata che ci fa vedere cose che nella realtà non esistono. Qui volevo mostrare un canneto artificiale rosso che nasce su questo lago nel quale il cambiamento è in atto. Qui la natura cambia forma nel proprio DNA, l’acqua che alimenta questo ghiaccio si sta esaurendo. Si nota sulla superficie del tubo che la parte vicina all’acqua è deformata e il riflesso aumenta questa illusione.

E poi c’è il lavoro lento della ricerca della pietra, spesso reperita in montagna. Alcune sui Monti Lepini, alcune in Abruzzo, altre sul Monte Rosa e sulle Alpi: sono pietre che rappresentano, al di là del materiale, anche il tempo sedimentato (magari risalgono a 300 mila anni fa). E la pietra è così come si mostra perché è caduta dall’alto, si è spaccata in quel modo, perché questa è la sua storia. Non è vero che la pietra è inerte ! Io credo per questa ragione che quando uno scultore prende un blocco di pietra si assuma una grandissima responsabilità nel lavorarla.

Silvia Scaringella: Hai ragione, penso alla pratica di estrazione, alle polveri, ai dentifrici, alle case farmaceutiche. Anche io come scultrice sento di avere una responsabilità nel cercare una trasformazione, una metamorfosi nell’unire il sentimento umano con quello naturale, una poetica che portiamo avanti da secoli. Il problema è quando poi facciamo business con le case farmaceutiche, ad esempio. Beh quello è un altro discorso. Ad esempio, non ci sono più ravaneti, pietre cosi non ci sono più, che sono pietre di scarto normale…

Alberto Timossi: Pensiamo ad esempio a Illusione, grande lavoro realizzato alle cave di Carrara. Quando il cavatore ha accolto il progetto di questa scultura mi son chiesto: perché mai? Questa è un’opera emblematica, molto critica. E invece… L’opera è stata montata nel luglio 2015. Doveva essere smontata i primi di settembre dello stesso anno e invece è rimasta lì!

Lucilla Catania: Alberto, ricordi che tu dicevi che le tue opere servono anche a “proteggere”?

Alberto Timossi: hai ragione! Quando sono tornato a Roma un artista mi ha detto, riferendosi all’opera di Carrara: «mi è piaciuto tanto questo ago che ricuce la ferita!». Ed io non ci avevo pensato!

Anna Maria Panzera: Io sottolinerei anche che buona parte delle tue sculture sono installate in luoghi inaccessibili, quindi non si stratta di opere realizzate con quel senso monumentale che potrebbe essere riconducibile all’antico, a un modo tradizionale di concepire una scultura, che deve essere vista e deve avere un messaggio, deve rappresentare qualche cosa, deve comunicare.

Queste sculture sono posizionate in luoghi remoti, il cui accesso è difficile. Quando parlavamo nel tuo studio io ti dissi che fra le miriadi di suggestioni che la tua opera mi suggerisce (come il discorso sulla natura, sull’antropocene), prevale il concetto della presenza, dell’arte come presenza laddove è successo qualcosa o c’è stata un’azione che ha imposto un cambiamento, o laddove qualcosa è sparito.

Alberto Timossi: si parlava insieme anche di atto politico. Io legherei la tua osservazione anche a questo concetto. Se fare arte rappresenta una presa di posizione rispetto ad alcune problematiche, l’arte allora è un gesto politico! Pensiamo al lago del Monte Rosa, al di fuori dei sentieri battuti: beh è proprio la sua condizione di isolamento che mi spinge a intervenire in quel luogo, è lì che nasce il canneto! Se la natura esprime se stessa e “fa nascere” un canneto artificiale lì, perché il lago è alimentato da un ghiacciaio che si fonde, allora è lì che deve nascere. Se la gente non ci va perché non è sul sentiero battuto pazienza, ma l’atto rimane quello della necessità.

E’ importante che l’arte ambientale accada lì dove deve succedere. Penso di nuovo all’opera Fata Morgana, che ha avuto ulteriore successo quando è stata trasferita nella vasca della Minerva alla Sapienza di Roma, dove è stata visitata da moltissime persone. Tuttavia il suo senso, nella sua nuova collocazione, cambiava completamente…

Anna Maria Panzera: Un intervento analogo è stato quello delle Pietre nere, sul lago Sofia giusto? Ce ne vuoi parlare? In quell’occasione come è avvenuta la scelta di una cifra un po’ diversa?

Alberto Timossi: Pietre nere è nata dal desiderio di continuare a parlare del ghiacciaio. Conoscendo molto bene il Ghiacciaio del Calderone sul Gran Sasso e avendolo frequentato negli anni, sapendo quello che era prima e quello che è adesso (non è considerato nemmeno più un ghiacciaio, ma un glacio nevato) ricordavo la presenza di un lago cosiddetto effimero, ovvero che nasce in un determinato periodo dell’anno e che ha una vita di 2-3 mesi soprattutto durante il disgelo. Poiché questo avvallamento era ghiacciato, l’acqua di scioglimento formava questo lago e poi il lago scompariva per evaporazione, non per assorbimento del terreno. Ho incontrato poi un glaciologo esperto del Calderone, il quale mi parlò dello scienziato che ha studiato questo fenomeno (il nome del lago, Sofia, era dedicato alla figlia, bellissimo un lago con un nome femminile…). Ho pensato quindi di fare un intervento in onore di questo specchio d’acqua che da una ventina d’anni non si forma più, perché la temperatura è salita, il fondo si è sciolto, il terreno assorbe l’acqua e di conseguenza non è più apparso. Allora ho pensato a queste 33 pietre nere che sono fatte con frammenti di tubo, tutte modellate come se il ghiaccio le avesse deformate e depositate a 2670 mt circa, presumibilmente dove il lago anni fa si formava. L’evento è durato un solo giorno. Un intervento spot, veloce visto solo dagli alpinisti che quel giorno erano sul Gran Sasso. Nero perché sono pietre a lutto, visto che il lago non c’è più. Dislocate sul pendio in maniera apparentemente casuale e disordinata, trovando possibili incastri col terreno. Si tratta di un intervento al quale sono molto legato, quasi invisibile da lontano. La montagna in questo caso piange lacrime nere.

Davide Silvioli: Alberto, mi affascina questa tua capacità di riuscire attraverso materiali dissimili fra loro a trovare sempre un punto di equilibrio. Così come la straordinaria capacità del tuo lavoro ad inserirsi nel contesto che li ospita, sia esso naturale o urbano. Il tuo lavoro riesce a coniugare tante proprietà diverse senza giungere mai a una sintesi vincolante, definitiva. Un lavoro che non dà risposte ma stimola piuttosto interrogativi.

Pasquale Piroso: Da architetto, mi ha colpito la tua capacità di entrare in relazione con l’architettura (mi vengono in mente i tubi di Matera). Fino all’installazione nelle cave alla quale io ho personalmente partecipato. L’ago che cuce le ferite di cui si parlava prima è meraviglioso. Adesso vedo in Alberto un segno di apertura. Questo tubo chiuso lentamente si sta aprendo, sta sbocciando per accogliere qualcosa. Come un fiore.

Cosa significa per te cambiare?

Alberto Timossi: Ho sentito l’esigenza di cambiare per essere fedele ad una ricerca su me stesso. Avevo avvertito un limite espressivo, mi riferisco all’elemento del tubo, ma per cambiare dovevo tornare indietro, riscoprire quello che facevo prima: modellare, il piacere della superficie modellata. Cercare qualcosa di nuovo ritrovandolo nelle radici del mio lavoro. Le pieghe che ho cercato di tirar fuori attraverso l’aiuto dell’elemento naturale, acqua terreno e pietra ricordano un po’ anche la storia, come il panneggio di Jacopo della Quercia. Vedi questa piega? È “pericolosa”…!

Anna Maria Panzera: Ascoltandoti, mi viene in mente Il libro di Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco che ha dato alla ricerca, al discorso sulla piega un’unica direzione: quella del dissolversi della forma. Ecco, io penso che questa tesi non ti rappresenti. Ci sono invece delle sculture di Giovanni Pisano, in cui la forma curva delle madonne e dei santi sembrano colpite da qualche cosa che non si vede, che mi ricordano tantissimo il tuo lavoro. Come lo stesso processo autonomo delle pieghe geologiche del terreno, lentissimo, invisibile, provocato da forze nascoste misteriose e contrastanti.

Alberto Timossi: Mi piace pensare all’artista come colui che interpreta, che fa da equilibratore. E’ importante essere capace di leggere e interpretare, piuttosto che creare.