Francesac Tulli

CESARE BIASINI SELVAGGI dialoga con FRANCESCA TULLI in occasione del secondo appuntamento di Sculture in campo a Roma, presso lo studio di Daniela Perego

Cesare Biasini Selvaggi: Prima di entrare nel vivo della conversazione con Francesca Tulli, mi preme aggiornavi sullo stato dell’arte di Sculture in Campo che è da poco diventato Ente del Terzo Settore, iscritto al RUNTS (Registro Nazionale del Terzo Settore). Ha ottenuto la personalità giuridica e inoltre è stato iscritto nei Luoghi del Contemporaneo dal Ministero della Cultura. Ecco, dei bei passi avanti!

Io sono molto lieto di partecipare a questa intervista con Francesca. Ho gradito particolarmente l’invito da parte di Lucilla Catania anche perché il mio incontro con Francesca risale a diversi anni fa, in occasione di una grande mostra di scultura contemporanea che facemmo a Pechino durante le Olimpiadi.

Io come giornalista collaboro con Exibart con La Freccia di Trenitalia (rivista alla quale sono molto legato) e adesso anche con LA7, con un nuovo programma televisivo dove racconto, per parafrasare Yona Friedman, le utopie realizzabili. Ecco, io penso che Sculture in campo sia un’utopia realizzabile e di fatto realizzata. Anzitutto perché è un progetto pensato da un’artista che non ha deciso di esporre unicamente le sue opere ma di ospitare anche quelle di altri artisti, per altro senza il vincolo di scelte legate unicamente ai “nomi”. Il percorso che offre Sculture in campo in questo senso è molto originale, si possono apprezzare opere che in altri circuiti non sono visibili. Tornando a Yona Friedman, lei credeva che le utopie fossero realizzabili e che i piccoli gruppi di oggi diventeranno la maggioranza di domani. Anche secondo me, dal punto di vista politico, dobbiamo ripartire dai piccoli gruppi per credere che sia possibile un cambiamento. Questa è anche l’idea che sottende al libro di Pistoletto Ominiteismo e demopraxia. E poi c’è un’altra riflessione, prima di entrare nel vivo della conversazione, che invece faccio da giornalista: l’Italia è un paese di piccoli e grandi miracoli quotidiani. Il Paese va avanti perché abbiamo il Terzo settore, l’associazionismo, e il mondo delle Fondazioni private che realizzano progetti e permettono che l’Italia abbia un PIL sostenuto, con un’offerta culturale di alto livello.

C’è una polemica/dibattito che sta montando, partita da un corsivo di Achille Bonito Oliva che si contrappone, in un certo senso, a questa visione. Su Robinson, supplemento di Repubblica, il critico scrive: «Pensare l’artista come un demiurgo, produttore isolato di immagini vuol dire non riuscire a comprendere l’esistenza di un condizione filosofica dell’arte e dell’artista. Calata all’interno di un contesto molto articolato, suddiviso in lavori specializzati. Senza un sistema composto da media, collezionisti, mercato, musei pubblico le opere in sé non avrebbero valore. Un plusvalore culturale travalica anche la qualità stessa dell’oggetto. Un valore aggiunto, un plusvalore culturale che spesso travalica anche la qualità stessa dell’opera d’arte e la modifica in una sorta di superarte». Ecco, almeno io non sono d’accordo, quelle che stiamo raccontando noi sono di fatto operazioni fuori dal sistema.

Francesca Tulli: diciamo che possiamo essere d’accordo con Bonito Oliva in parte, perchè il supporto del sistema di cui parla il prof. Bonito Oliva è necessario, ma è anche vero che c’è tutta una realtà di produzione artistica di cui non si può negare o falsificare l’esistenza solo perchè non si trova all’interno del sistema…

C.B.S: Tu sei stata sostenuta dal sistema?

F.T: No, assolutamente. Parliamo di un sistema che rimane in superficie rispetto al lavoro degli artisti. Non so se la ricerca che promuove il sistema sia una ricerca onesta o se in molti casi si tratti di una “finta ricerca” costruita al tavolino. Penso che il mercato sia un elemento con il quale fare certamente i conti ma non penso che possa essere la prima finalità della ricerca artistica, non può essere l’obiettivo primario per un artista. A mio giudizio parliamo di un sistema talvolta, diciamo così, non intellettualmente onesto.

C.B.S: Per orientare questa intervista, ho pensato di isolare alcune parole, come un dizionarietto per articolare la conversazione estesa anche ai presenti, ovviamente.

Francesca, il tuo lavoro è stato nel corso del tempo studiato e approfondito da diversi storici e critici d’arte. Hai un sito aggiornato molto ben realizzato, che contiene un certo numero di testi critici.

Arrivo alla prima parola che mi è venuta in mente osservando il tuo lavoro che è Percezione.

La tua indagine inizia dalla pittura, chi ti conosce lo sa sicuramente. Studi Scultura all’Accademia e poi ti rivolgi alla pittura. Perchè questa inversione?

F.T: Ho iniziato a lavorare negli anni Novanta e per la scultura era un momento difficile. In quel periodo era poco considerata, la scultura è costosa, è compelssa, richiede competenze tecniche quindi è un settore dove meno artisti hanno desiderio e possibilità di cimentarsi. Per un periodo ho lavorato il legno, poi ho cominciato a dipingere. Sono partita da una ricerca introspettiva, abbracciando il punto di vista del corpo, quello che io vedevo del mio corpo, come un’immagine fotografica a testa in giù. Da lì in poi quello è stato il mio modo di guardare il mondo, come se avessi la testa a terra. E’ stata una ricerca molto legata alla mia esperienza personale, individuale, all’atmosfera casalinga, intima, osservata da un punto di vista altro, inusuale. Ho poi alzato il mio punto di osservazione ma ho sempre privilegiato, anche attualmente, l’orizzonte obliquo, con una prospettiva spiazzante con interni sempre un po’ in bilico tra realtà e immaginazione. Negli ultimi lavori pittorici rappresento tappeti mossi da vortici e gorghi che nascono dal pavimento e che creano superfici ondulate ed inquietanti

C.B.S: La tua è una ricerca moto coerente anche se hai attraversato sia la scultura che il disegno e la pittura senza particolari preferenze. Tornando alla percezione, tu indaghi il rapporto fra creazione artistica e dato percettivo. A mio avviso più sullo spiazzamento che sulla destabilizzazione, specialmente in pittura. E qui si intravede anche un tuo riferimento ad Anish Kapoor.

F.T: Kapoor è stato un artista che ho osservato attentamente, specialmente nella sua prima produzione. Anche Gormley è stato certamente un mio riferimento, specialmente le prime opere che mi hanno molto affascinato. Me lo ricordo a Milano, in una galleria dove era esposta una figura con delle braccia lunghissime che toccavano le pareti. Di Kapoor mi ricordo i lavori alla Biennale, i suoi sassi, le sue profondità di cui non si riusciva a vedere il fondo. Sono opere che mi hanno segnato particolarmente.

C.B.S: Quando nei tuoi lavori ribalti il punto di vista (che poi a mio avviso è proprio questa la funzione dell’arte, quella di dare la possibilità di cambiare il punto di vista sul mondo), mi è venuta in mente l’immagine di una clessidra capovolta i cui granelli di sabbia, infrangendo le regole della gravità, non scendono ma salgono, invertendo quindi i meccanismi percettivi dei processi della vita umana.

F.T: I miei quadri nascevano e tutt’ora nascono da un progetto fotografico. La necessità per me è vedere la realtà da punti di vista inusuali come con lo sguardo di un insetto volante, una mosca che vola radente e vede questi spazi da scorci insoliti. In seguito su questi interni ho iniziato ad aprire ampie finestre, e ho indagato prospettive impossibili, come se la casa stesse volando via. Tutto il mio lavoro consiste nella ricerca di una realtà che, anche se apparentemente rassicurante, diventa poi fragile, meno sicura, e che dobbiamo osservare con attenzione.

C.B.S: Il tuo lavoro, per altro, si fonda tutto sull’equilibrio.

F.T: Si, equilibrio al limite. In particolare nella scultura, che io ho ripreso negli anni 2000. Allora la difficoltà per me era come inserire nella mia produzione artistica la scultura rispetto alla precedente produzione pittorica. Ho impiegato molto tempo a ricercare e a capire come potessi creare un dialogo coerente tra la mia pittura e la mia scultura. Non riuscivo a capire come potessi trasformare nelle tre dimensioni le prospettive insolite dei miei quadri. Allora sono ritornata all’origine, su me stessa, su come mi percepisco nel mondo; ed ecco sentire il mio corpo a testa in giù, con le gambe in aria… Quindi ho pensato che le mie sculture potessero rappresentare degli ideali osservatori di prospettive strane, con figure prevalentemente a testa in giù o comunque con un equilibrio instabile. Da lì è nata una nuova produzione. Ecco, la scultura che è tridimensionalità, è forza, è potenza, è corpo vero, è come un’identificazione di me stessa che osserva quelle prospettive insolite indagate nella mia produzione pittorica precedente. Naturalmente non mi sono fermata lì e i soggetti delle mie opere scultoree si sono sviluppati e coerentemente diversificati.

C.B.S: Tu hai fatto un percorso che si disinteressava dell’onda che il sistema in quel momento cavalcava. Il sistema non vede di buon grado il fatto che si possano utilizzare dei linguaggi così diversi. Poi tu hai fatto anche pittura figurativa, particolarmente ostracizzata, anche se oggi ne osserviamo un ritorno…

F.T: Ho avuto la fortuna di lavorare con Liliana Maniero che ha sempre sostenuto la pittura. Avere collaborato con una gallerista sensibile che insieme ad altri artisti ha sempre creduto nella pittura per me è stato un grande supporto.

C.B.S: Un’altra parola è Introspezione. Osservando le tue figure, gli occhi sono spesso chiusi, sono illuminati dall’interno.

F.T: Si, le mie figure guardano la realtà con il sentimento e con il cuore, non con la vista. E quindi sono quasi tutte senza occhi, nel senso tradizionale del termine.

Ho realizzato piccole teste in terracotta illuminate internamente. La luce fuoriesce da piccoli fori praticati sulla superficie ed allude all’interiorità del soggetto.

C.B.S: Guardando i tuoi lavori mi è venuta in mente questa citazione: «Come artisti non abbiamo altra scelta se non di guardare nell’oscurità. Se Platone nel mito della caverna racconta di come gli uomini si evolvano scoprendo la luce, Freud invece ci intima di guardare nella profondità della caverna, dove ci sono l’oscurità, il buio, il terrore. L’oscurità, la grande intuizione dello psicanalista viennese, è il luogo che l’artista deve oggi più che mai esplorare». Sono parole di Anish Kapoor. Ti ci ritrovi?

F.T: Si lo condivido! Non aver paura di guardarsi dentro è particolarmente importante per chi vuole esprimersi attraverso l’arte, significa guardarsi al buio, non aver paura di affrontare timori, incertezze. La realtà c’è, esiste, ne dobbiamo fare parte e prendercene cura come della natura. Però guardarsi dentro al buio, penso sia una prova necessaria anche se può spaventare.

C.B.S: Un’altra parola è Corpo. Il tuo lavoro esprime l’armonia del corpo. Concentri la tua ricerca sul corpo umano inteso esso stesso come spazio. Nel rapporto con lo spazio circostante, con gli esseri umani, con il cosmo. La scultura ha come finalità la rappresentazione come processo continuo di indagine tra esistere e lo spazio circostante e sulla contrapposizione fra presenza e assenza, fra spazio immaginativo e spazio reale alla totale rottura dei confini fra dentro e fuori, fra spazio e tempo.

F.T: Beh, questa è una lettura fin troppo articolata. Senza dubbio le mie figure e i miei corpi sono pensanti, hanno una relazione con l’esterno ma al tempo stesso sono molto introspettivi. L’equilibrio nell’opera per me è un grande valore .

Nelle mie sculture cerco una leggerezza che alluda alle leggi della natura, alla sua armonia. La geometria è contingente alla natura (pensiamo alla sezione aurea che determina lo sviluppo di elementi naturali) anche se visivamente al primo impatto non si percepisce. Le mie sculture hanno una loro struttura geometrica che spero riesca a trasmettere armonia ed equilibrio.

C.B.S: La parola successiva è Tempo. Che cos’è per te il tempo e come entra nel tuo lavoro?

F.T: Molti miei cicli di opere non si concludono. Il tempo per me è una continuità, della mia vita e dell’essere umano. Anche nel mio lavoro, ancora oggi rappresento cicli di soggetti che realizzo da anni: armi bianche, teste illuminate, figure in equilibrio, ecc. Nel mio lavoro il tempo si dilata, non definisce uno spazio al termine nel quale l’idea si conclude.

C.B.S: Un’altra parola di questo dizionarietto è Equilibrio. La ricerca di un equilibrio fra corpo e spazio. Le tue sculture sono in equilibrio anche senza perni.

F.T: Alcune mie figure scultoree, anche di grandi dimensioni, si sostengono con un appoggio minimo. Tutte si autosostengono. Anche nell’’opera che vi mostro oggi: la superficie di appoggio è esigua rispetto alla spada di quasi un metro, c’è un perno che la regge per sicurezza in questo caso, ma anche questa scultura potrebbe restare in equilibrio da sola, non avrebbe bisogno di perni che la sostengano.

C.B.S: E’ un equilibrio sia fisico che mentale?

F.T: Prevalentemente mentale…

C.B.S: Ecco il tema dell’Autoportanza, un altra parola che può tornare nel tuo vocabolario. Pensavo al ciclo delle Gimnosofie, improntato su questo.

F.T: Si quello forse è il primo ciclo di lavori dove si è espressa questa necessità. Ho rappresentato ginnaste di cui non volevo esaltare la forma fisica ma l’estrema capacità di concentrazione che permetteva loro di ottenere risultati di equilibrio e fermezza anche piscologica, guardando sempre all’interno di se stesse.

C.B.S: Questa tua ricerca di equilibrio si rivolge anche alla tecnica che evidentemente è stata oggetto di studio. Tu hai anche scolpito (ci parlavi dei primi lavori in legno) ma in realtà tu lavori più sul modellato, con la cera in particolare…

F.T: Si, perchè la cera permette, preparando bozzetti di piccole dimension, di lavorare senza struttura di sostegno. Questo mi permette di modificare la forma in corso d’opera, per correggere ad esempio il baricentro delle figure. Costruendole in piccolo riesco a realizzare delle figure autoportanti. Dalle piccole cere, passo alla realizzazione di opere più grandi, con strutture in ferro che sono l’armatura dell’opera in scala. Dopodiché lavoro la creta. Se sei in grado di mantenere le proporzioni rispettate nel bozzetto in cera, il gioco è fatto!

C.B.S: Un’altra parola che ho enucleato è Umanesimo/Neoumanesimo. Perché la figura umana è una costante nel tuo lavoro plastico. Citando Paolo Balmas: «L’essere umano torna padrone della scena, trasformandosi in figure esemplari ma rappresentative».

Oggi si tende a far sparire l’uomo. Visto che l’uomo ha devastato il mondo, si tende a marginalizzarlo. Quindi pensiamo ad una nuova forma di convivenza fra uomo e natura. In questo senso, il tuo lavoro è stato a mio avviso lungimirante, aspira a costruire un nuovo umanesimo.

F.T: Beh, nel mio caso è un po’ come se ogni mia scultura rappresentasse me stessa o parte di me stessa. Credo che per esprimere la natura umana non sia necessario realizzare opere figurative. L’umanesimo risiede nella capacità di “essere umano”.

C.B.S: Arriviamo alle Armi bianche/armi mute, il lavoro che presenti qui. Con i capelli che diventano lama. Le armi bianche sono pugnali, sono spilloni, sono spade. In particolare questa opera di che anno è?

F.T: Quest’opera è del 2012. Io ho realizzato un’opera analoga nel 2009 che è stata inserita nella collezione del Premio Fabbri per l’Arte a Bologna. Pur essendo un’opera datata, mi sembrava attuale da presentare in questo momento storico e in particolare in un contesto legato alle problematiche femminili. In molte culture i capelli rappresentano simbolicamente qualcosa che ferisce. In questo caso la simbologia è legata alla possibilità di poterli mostrare, esporre, rivendicare. Sono armi di difesa si, ma anche di offesa all’occorrenza. L’opera poggia su una base ma è impugnabile come le altre armi bianche/mute ed ha quindi una sua funzionalità. L’opera può essere esperita da più punti di vista: come oggetto scultoreo-artistico, ma può diventare anche altro. Di questi lavori ho prodotto anche una serie con inserti fotografici in cui io stessa impugno le armi bianche in oggetto.

C.B.S: L’ultima parola alla quale ho pensato è Antropofagia.

F.T: Una piccola anticipazione: questa sarà il soggetto principale di una mostra che si inaugurerà il 15 marzo a Roma, alla Hyunnart di Paolo Di Capua, con la cura di Mario di Candia. Presenterò delle piccole figure che mangiano se stesse ma in modo molto garbato. Non sono violente. Non sbranano ma assaggiano, gustano. Ma non voglio anticipare troppo…

C.B.S: C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

F.T: Ci deve essere sempre. Spesso l’imprevisto è l’alleato nella realizzazione di un’opera. E’ un guizzo importante. Devi sempre lasciare spazio all’imprevisto ed essere pronto a coglierlo.

C.B.S: Con chi vorresti realizzare un’opera a quattro mani? Sia del passato che del presente?

F.T: Forse con Lucilla Catania. Le nostre diversità potrebbero essere un’occasione di incontro interessante. E del passato forse con Duilio Cambellotti. Un’artista colpevolmente poco conosciuto.

C.B.S: Quanto è importante per un artista contemporaneo il rapporto con l’arte del passato?

F.T: Se vuoi fare qualsiasi lavoro devi conoscere il passato, lo devi studiare. Solo così puoi costruire un presente che volge al futuro. Io personalmente non condivido la pratica del “saccheggio” di opere del passato, sia in pittura che in scultura. Mi sembrano speculazioni opportunistiche.

C.B.S: Qual è il tuo atteggiamento verso la spiritualità e la religione?

F.T: La spiritualità fa parte dell’uomo. Sono cattolica di estrazione ma ho i miei dubbi, le mie incertezze in cui la fede vacilla. Forse in generale bisogna trovare una propria ragione per cercare di capire che la vita è quella che è e forse c’è un’entità superiore che ci può aiutare ma in un modo che io non riesco a capire.

C.B.S: Un’ultimissima domanda. Cos’è per te veramente contemporaneo?

F.T: Qualcosa che riesce ad essere universale. Non esiste una contemporaneità legata solo a un

momento storico.