Luigi Puxeddu

Intervengono nella conversazione Daniela Bigi, Alessio Fanzoni, Laura Iamurri, Roberto Lambarelli

Valentina Gramiccia: Ho colto con piacere l’invito a porti delle domande in una conversazione che penso possa essere proficua, visto il significato del tuo lavoro in ambito cittadino e nazionale. Devo dirti, senza nessuna piaggeria, che ho sempre apprezzato la tua ricerca. Il primo contatto che ho avuto con il tuo lavoro ha coinciso con la prima personale da Fabio Sargentini, a via del Paradiso a Roma nel 2011.

Ho notato nella tua ricerca dei caratteri in controtendenza rispetto all’iperconcettualismo dominante e quindi una forma di attaccamento alla tradizione con riferimenti evidenti all’Espressionismo internazionale e a quello tedesco in modo particolare, a mio giudizio, che non esclude tuttavia un tentativo di ricerca e di proiezione verso nuovi orizzonti, verso nuove possibilità espressive. In questo senso anche la partecipazione a Sculture in campo ha dimostrato la tua capacità di adattarti a situazioni, a contenitori e di rispondere a sollecitazioni altre rispetto a quelle convenzionali, il che la dice lunga sulla tua disposizione ad una postura diciamo così originale nei confronti del resto dell’ambiente e del sistema che rappresenti. E’ per queste ragioni che mi fa particolarmente piacere porti alcune domande.

Luigi vorrei chiederti, viste le caratteristiche del tuo lavoro, che importanza dai nella produzione di opere d’arte all’aspetto pratico-realizzativo. Detto in altre parole, ritieni che il manufatto nella produzione di un’opera d’arte sia una componente essenziale oppure se ne può fare a meno, cosi come affermano i dogmatici dell’iperconcettualismo?

Luigi Puxeddu: Per me è relativo, perché il manufatto sottintende una capacità artigianale che a sua volta sottintende una tecnica precisa. La scultura per me è un esperienza che consiste nel riempire un volume di segni, in qualche modo. Ad esempio io do molto valore alla forza vettoriale della scultura. La curva non mi interessa. Anche il lavoro che presento oggi è incentrato sulle linee, per me si tratta di una cosa primordiale, anche nella sua composizione.

Tornando al discorso del manufatto, in questo momento storico è molto difficile da affrontare e riconoscere perché è mistificato dalla “presenza” dell’artista. L’idea del manufatto, in realtà, appartiene alla scultura antica, quando vigeva l’anonimato dell’artista che realizzava l’opera. Adesso, senza troppe polemiche, conta molto, soprattuto nelle nuove generazioni, che l’artista sia famoso. Lo devono vedere tutti, lo devono conoscere tutti. Quello che effettivamente fai è relativo. Tuttavia il manufatto ha una sua sacralità, è il superamento di un confine. L’artista realizza una cosa che diventa indipendente da sé. E quella è la vera arte! Faccio un esempio: l’artista può essere l’uomo più triste del mondo ma quello che vedi nella sua opera ti può dare allegria, come se i caratteri non collimassero.

La scultura per me ha un valore sociale e lo ha sempre avuto. La scultura non è una cosa intima, non la puoi nascondere, non la puoi confinare. Puoi realizzare anche una scultura molto piccola ma avrà sempre bisogno del suo spazio, del rapporto con l’ambiente nel quale è inserita, a partire semplicemente dalla sua tridimensionalità.

Oggi a mio giudizio non c’è più bisogno del manufatto inteso tradizionalmente. A partire dalle scuole e dalle Accademie, adesso gli insegnamenti sono prevalentemente digitalizzati. Molti dei giovani artisti sono anche grafici. Sono pochi gli artisti puramente plastici, possono avere una propensione verso la pittura ma non arrivano mai a liberarsi completamente dalla progettualità. L’arte contemporanea mi sembra ferma nel suo attualismo. Come non ci fosse né passato né futuro. A livello internazionale, ormai c’è l’imitazione del manufatto piuttosto che il manufatto. E tutto è prodotto con la mentalità di un impaginatore, con un’attenzione grafica all’insieme, vincolato anche al discorso delle nuove tecnologie. Ormai è più importante una foto virtuale che una visita reale.

Sono un po’ di anni che faccio lo scultore, ho partecipato a molte mostre anche impegnative, posso dire che l’oggetto c’è, esiste, conserva il suo peso ma l’intenzione a realizzare il manufatto non è più quella di una volta. Banalmente, c’è differenza tra il fare scultura da parte mia rispetto agli scultori dell’età di mio nonno. Una grandissima differenza.

Roberto Lambarelli: Effettivamente hai ragione tu quando dici che oggi è difficilmente identificabile l’opera d’arte. Vi racconto un episodio che coinvolse Cesare Tacchi. Sua figlia, che passeggiava nello studio del padre, quando si imbatteva in un oggetto per lei particolare domandava al padre: Papà, questa è un’opera? Perché fosse stata un’opera avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione. Come se l’opera, da un certo momento in poi, non sia più così facilmente riconoscibile, così come la scultura oggi…

Luigi Puxeddu: Io osservo che molti artisti internazionali hanno rivalutato la scultura come forma di espressione, come esperienza. Penso uno fra tutti Tony Cragg, ma anche Anish Kapoor, due grandi artisti inglesi. Ma, a proposito dell’attitudine sociale della scultura, hanno portato a una spettacolarizzazione della scultura. Non è più la scultura di Henry Moore, per fare un esempio, che era un scultura strutturata. Hanno fatto prevalere l’immagine della scultura sulla scultura stessa. Hanno reso la scultura un luogo (di ritrovo, di aggregazione, di divertimento, di provocazione). Come avessero tolto potere all’oggetto, dando più potere allo spazio. Pensiamo al Luna park di Carsten Höller: pur nella consapevolezza del suo intento, tuttavia queste operazioni non fanno bene alle arti plastiche. Il mondo è già pieno di oggetti, è iperplastico…

Dagli anni ’90 in poi è stata sdoganata l’idea che qualunque cosa l’artista faccia va bene, basta che la si faccia “seriamente” (nel dovuto contesto, attraverso gli opportuni canali di promozione). Adesso questa idea è morta, non va più bene. Anche la video-installazione come forma espressiva sta svanendo, si è consumata. Adesso si è ritornati all’utilizzo degli oggetti che non hanno più niente a che fare con esperienze come il Dadaismo, con l’idea cara all’Arte povera, o ancora al concettualismo. Adesso è maniera…

Ho avuto da giovane un’esperienza di formazione un po’ al di fuori dei contesti, frequentando l’Erasmus in Islanda, presso la Scuola d’Arte islandese. Io ero considerato un alieno! Allora volevo sperimentare diversi materiali, come il gesso, volevo mettere le mani in pasta mentre gli altri studenti erano tutti impegnati e già esperti grafici e progettisti digitali con il loro laptop. Ero considerato un uomo del sud del mondo, pur avendo origini tedesche. Alla fine mi hanno confinato in una stanza di vetro, lontano dagli altri studenti, suscitando la preoccupazione della Direttrice che temeva mi facessi male. Tuttavia l’esperienza di confronto è stata interessantissima. Allora insegnavano già i mix-media: si sperimentava l’arte con diversi strumenti, con i plotter per esempio, e ovviamente molta video arte, per altro molto valida. L’arte del nord, per concludere, è molto diversa sul piano culturale che simbolico, nonostante la globalizzazione. Ci sono delle specificità nell’arte norvegese, danese, finlandese, islandese che non conosciamo ancora bene. Li accomuna forse un’indole cupa, un certo romanticismo, una interna intimità, il loro rapporto con una natura diversa, più avversa della nostra. E poi c’è la dominanza delle nuove tecnologie digitali che condiziona l’arte non solo nordica ma internazionale, che spinge l’artista a perseguire una perfezione realizzativa che dimentica il valore dell’errore, la sbavatura, il grezzo. E questo condiziona un po’ tutti.

Laura Iamurri: Questo è vero ma io osservo, non solo nell’arte ma anche in un altro settore come quello dell’haute couture, nelle sfilate di moda ad esempio un ritorno al “lusso” esclusivo dell’artigianalità, della qualità e dell’eccellenza. Tu dici invece che il manufatto è generalmente sdegnato. Io ho esperienza, durante la visita alle ultime Biennali, pur nel ridimensionamento del ricorso al video come forma espressiva, al ricorso dell’immagine video appaiata a oggetti tridimensionali che compaiono nel video stesso. Proprio a veridicizzare l’effimero dell’immagine, quasi a giustificarlo. Vasi, ceramiche, tessuti. C’è questo rapporto fra oggetto e rappresentazione dell’oggetto.

Luigi Puxeddu: ma ho l’impressione che questo non susciti più stupore…

Daniela Bigi: Non credere. Io noto che nelle Accademie si ripopolano le aule di Incisione, ad esempio, che erano aule disdegnate fino a qualche anno fa. L’aula di scultura torna ad essere un aula interessante. I giovani vogliono usare lo scalpello, modellano la cera, i materiali, sono interessati alla processualità della materia. Parlo di giovani fra i 20 e i 30 anni. Esiste poi una conflittualità in questa scena emergente fra chi sente questa necessità – e sono molti e son quelli che ascoltano la vocazione generazionale – e quelli che invece, ripetendo le parole dei loro maestri, si trovano in difficoltà, non sanno neanche leggerlo il manufatto, non sanno neanche come approcciarlo. Lo leggono secondo la logica degli anni ’90 che disdegnava la pittura e la scultura. Ma questo è appunto un fatto di formazione dove acquisisci modelli e fai tua la visione del tuo professore o ti opponi. Oggi c’è questa frizione. I giovani e i giovanissimi, proprio perché si sentono sopraffatti dalle immagini e dalla loro perfezione, dal prodotto pulito, dalla sua patina cercano di creare delle crepe. La contraddizione nasce dalla loro incapacità di emanciparsi totalmente dal mondo digitale, dei social (questo comporterebbe il loro isolamento) e nella contestuale ricerca di autenticità. Una forte contraddizione di cui sono consapevoli che produce frustrazione. Per cui molti giovani tornano dentro gli studi.

Sfogliando il repertorio della tua produzione, si osserva un interesse particolare nei confronti del mondo animale, inteso evidentemente anche sotto un profilo simbolico. Vorrei sapere qualcosa su questa tua predilezione.

La figura umana per me è meno interessante, la raffigurazione di un uomo ad esempio. La trovo inutile per me, almeno oggi. Mi affascina l’idea dell’animale che nasce dai primordi della pittura e della scultura. Per me la capacità di produrre un’immagine attraverso la scultura è un’esperienza molto forte, rappresenta la ricerca di un limite che uno può, eventualmente, superare. Ci vuole forza di volontà per fare una scultura che raffigura, nel caso di specie, un animale. L’animale in arte è libero, fa capo a un’iconografia più aperta, più slegata dai canoni tipici dell’uomo che è stereotipata, dal kouros greco all’uomo vitruviano fino ai canoni del Rinascimento e oltre. Fare una scultura che raffigura un essere umano è un po’ una castrazione per me. L’animale è bello perché è sempre stato presente nella scultura, nel monumento, al di là poi dell’immenso repertorio araldico.

Ci sono lavori ai quali sono molto legato, ad esempio ad una mia grande tigre preistorica dai denti a sciabola. Con lei ho portato in vita l’idea dell’animale estinto, che nessun uomo ha mai visto. Anche quello alle mie spalle è il bozzetto di una scultura, un Terror bird, un grande uccello predatore del Pleistocene. Mi affascina anche il rapporto dell’animale con la morte, in una dimensione esistenziale. L’animale, diversamente dall’uomo, credo rappresenti di più la morte perché nella mia idea di natura selvaggia nessun animale è mai morto di malattia, la morte è prevalentemente il risultato ultimo della predazione.

La mia scultura non nasce dal disegno come progetto. Così come la scelta dei materiali. Ad esempio ho iniziato ad usare il legno per caso, non perché avessi una particolare predilezione. Uso un legno comune, come l’abete, facilmente reperibile.

Ho memoria ancora vivida della tua prima mostra nella galleria di Fabio Sargentini a via del Paradiso. Vorrei che ci raccontassi qualcosa della tua esperienza a contatto con questa figura particolarmente significativa nella storia della cultura della nostra città e in particolare che ci dicessi quali sono state le tue intenzionalità nel confezionare quella proposta espositiva in una galleria cosi prestigiosa.

La prima cosa che mi colpì di quello spazio fu la pavimentazione. Realizzai una serie di opere che poggiavano su piedistalli autoportanti per sostenere le sculture, proprio per rendere visibile il pavimento e innalzare la scultura al di sopra di esso. In quel contesto, i miei animali cercavano forse di esprimere quella malinconia che mi davano anche i monumenti di Roma, o l’araldica che rammenta i rapporti di potere dell’uomo.

Dopo la prima personale con Fabio Sargentini ho potuto insieme a lui sperimentare liberamente, senza limitazioni. Ce ne fossero ancora di galleristi come lui! Ho realizzato, in occasione di una collettiva, un cobra ad esempio, una grande anaconda, esposta successivamente anche alla Galleria Nazionale.

Il discorso sugli animali poi si è sviluppato con Toselli a Milano. Anche egli un grandissimo gallerista e un grandissimo intenditore d’arte ed esperto del contemporaneo. Ho lavorato bene con lui, in un ambiente, quello milanese, molto stimolante anche sul piano del mercato e del collezionismo e sulla scorta degli stimoli dati dal mondo del design e del disegno industriale.

Roberto Lambarelli: Tornando a Fabio Sargentini, sappi che ti ha messo addosso una responsabilità enorme perché riferendosi al tuo lavoro ha parlato di te come l’erede di Pino Pascali! Una bella responsabilità…

Luigi Puxeddu: Pensa che a me non l’hai mai detto… Parlando di responsabilità, in quella esperienza con Sargentini avvertivo che la sua esigenza fosse che la mostra, non i singoli lavori, funzionassero come una macchina perfetta. E’ la mostra la cosa importante. L’allestimento degli spazi, la distribuzione delle opere negli spazi ben condensati. L’allestimento nel suo insieme. Sapeva farlo anche da solo in alcune circostanze, senza l’aiuto di nessuno. Questo a prescindere dal manufatto delle singole opere. In questo lui è moderno. E’ un grande comunicatore. Un grande gallerista!

Alessio Fanzoni: Mi ha colpito molto, durante la conversazione, il tuo riferimento al concetto di vettorialità. Ce lo puoi articolare?

Luigi Puxeddu: E’ vero, a me non piacciono le curve come dicevo. Per me il discorso della linea-forza è importante. La scultura, diversamente dal modellato, ti permette di togliere e aggiungere in corso d’opera: se il volume non ti convince lo cambi, il legno è buono anche per questo. Con la pietra magari è più difficile… Nella scultura più che in altro insiste questa presenza delle linee-forza, della vettorialità. Questo c’è anche in pittura, pensiamo a De Chirico. O alla pittura dell’Umanesimo. Le linee dritte hanno un maggior potere. Le linee sorreggono la scultura, la fanno stare in piedi da sola, solidamente.

Sono rimasta molto colpita non solo dalle tue opere plastiche ma anche dai tuoi disegni e dalle tue opere bidimensionali che evidentemente sono, in qualche misura, a mio giudizio, debitrici della lezione storica dell’Espressionismo tedesco, e in particolare quello che fa riferimento all’esperienza neoespressionista dei Nuovi Selvaggi. Che cosa ci puoi dire a proposito di questo?

Mi piace molto Penck. Io ho anche origini tedesche, come accennavo. Tuttavia mi sento un artista mediterraneo.

Il lavoro che presenti in questa occasione ha caratteriste particolari, molto suggestive. Vorrei che tu raccontassi qualcosa a proposito.

Questo è un lavoro datato, del 2008, precedente rispetto all’esperienza da Sargentini. Nasce da un discorso di finitura. Volevo realizzare un oggetto sempre in legno e ne sono usciti fuori due. Per me è un po’ come un osso di seppia. Una cosa che ha a che fare con lo scheletro, dalla linea primordiale. Volevo raccontare lo sviluppo della linea e della sua proiezione. E poi mi interessava questo aspetto dell’ombra e del bianco. Io ho iniziato come pittore, non come scultore, ancora prima della mia formazione in Accademia. La scultura deriva, da un certo punto in poi, dall’incapacità di dipingere. Ho frequentato anche la Scuola libera del nudo, prima dell’Accademia. Il mio professore era allievo di Amerigo Bartoli. Ma la scultura mi ha sempre affascinato, fin da bambino.

Hai voglia di raccontarci come è avvenuto l’incontro con Sculture in Campo e le ragioni che ti hanno portato alla scelta delle opere Tigre e Lince? Qual è stato il tuo approccio con gli spazi naturali del Parco?

E’ stato Roberto Gramiccia a presentarmi Lucilla Catania. Dopo il nostro primo incontro a Roma ho poi visitato gli spazi di Casetta Lola a Bassano in Teverina che mi hanno subito incuriosito. Era il 2018. Sono stato fra i primissimi autori con Alberto Timossi e Francesca Tulli a posizionare le mie opere nel Parco. Abbiamo scelto di installare l’opera Tigre che fin da subito ha convissuto con la fauna del Parco, con i gatti e le oche che girano attorno. Successivamente le abbiamo affiancato, nel 2020, Lince.